Questo video nasce non solamente dall’esigenza di raccontare il percorso di vita di uno dei membri dell’Associazione “Ghetto Out” ma, in particolare, con lo scopo di non riprodurre materiale in cui ci si fa portavoce di qualcun altro, lasciando spazio e libertá d’espressione ai protagonisti di questo percorso.
La storia di Lamine ricorda quella di migliaia di immigrati “irregolari” e mette in luce solo uno degli aspetti concernenti l’immigrazione in Italia. Per comprendere a fondo la tematica riteniamo necessario andare a ricercare “come sia possibile” che cosí tanti immigrati debbano trovarsi a svolgere, senza altra scelta, il cosiddetto lavoro nero. L’inizio di tale storia va ricercato nella legislazione italiana in fatto di immigrazione, materializzata in quei luoghi – non luoghi propri dell’epoca del “supermodernismo” e cari all’antropologo Marc Augé, in cui vige (per dirlo con il filosofo Agamben) uno stato d’eccezione che si concretizza in un vuoto giuridico, una sospensione del diritto paradossalmente legalizzata: stiamo parlando dei CIE (Centri di Identificazione ed Espulsione per Immigrati) e dei CARA (Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo). Molti degli immigrati sono infatti costretti prima a passare per questi luoghi per poi ritrovarsi “illegali” ed impiegati nel settore del lavoro nero. Costretti nei CIE se, anche dopo 20 anni di soggiorno REGOLARE sul territorio italiano, si ritrovano a non avere la possibilitá di rinnovare i propri documenti (ad esempio nel caso in cui non si sia in possesso di un contratto di lavoro) con un conseguente ed inevitabile mandato di espulsione dal territorio italiano dopo 18 mesi di detenzione nel CIE. Oppure, costretti in un CARA anche fino a due anni in seguito alla domanda di richiesta d’asilo. Per la permanenza in tali centri e per ogni immigrato vengono sovvenzionati finanziamenti statali alle cooperative per la gestione di tali centri, le quali dovrebbero occuparsi di mettere a disposizione dei servizi per una permanenza dignitosa di tali immigrati cosa che, nella maggior parte dei casi, non avviene mentre “i soldi non si sa dove vanno a finire”.
Usciti da un CIE dopo 18 mesi con un mandato di espulsione o da un CARA dopo circa due anni con un diniego della richiesta d’asilo, queste persone non sanno dove andare, non possono andare né avanti, né indietro. Non possono tornare nei loro paesi d’origine per differenti ragioni ma non avranno mai la possibilitá di costruire una vita alla luce del sole in Italia poiché illegalizzati. Cosí, una delle poche possibilitá a loro disposizione, rimane quella di lavorare nel settore dell’agricoltura, in nero naturalmente (si faccia caso alla distribuzione delle concentrazioni di CIE e CARA sul territorio italiano e alla loro stretta relazione con le zone a maggiore concentrazione di lavoro agricolo). In questo modo, si vanno ad ingrassare doppiamente le casse dello stato, prima con i CIE e i CARA e, successivamente, tramite il lavoro illegale sui campi.
E, cosí, Lamine ci racconta: “[Un giorno] ho sentito che c’é un luogo che si chiama Foggia dove c’é il lavoro di agricoltura e ho detto va bene, perché io sono qua per lavorare, posso fare tutti i lavori che possano darmi la vita dignitosa e cosí sono venuto qua. […] mi hanno dato l’indirizzo di una persona al ghetto e dopo sono venuto al ghetto [di Rignano]. […] Lí non c’é acqua potabile, non c’é sicurezza ma… che dobbiamo fare, siamo arrivati e non possiamo tornare indietro. […] per abitare dentro le baracche devi fare un pagamento di 20 o 25€ e ti danno un materasso […] ma tutto a terra. […] c’é un ristorante […] e sei costretto a comprare il cibo lí. […] Certo, tu puoi andare via perché non é che sei costretto a vivere lí, non é un obbligo ma una scelta. Io, per esempio, non avevo la possibilitá di andare via […].”
L’economia sommersa, con un 28% del prodotto nazionale, risulta raggiungere in Italia la percentuale piú alta di tutta L’Europa. Lamine ci dice che é una scelta libera ma gli immigrati illegalizzati (alias non in possesso di un “regolare” permesso di soggiorno), in realtá, dipendono proprio da questa “economia sommersa” (e viceversa): infatti, la continua richiesta di lavoro nero in condizioni che piú assomigliano alla schiavitù necessita lavoratori illegalizzati, complice la legislazione sull’immigrazione che ha eliminato quasi del tutto forme regolari di ingresso nel “nostro” Paese. Tale richiesta di lavoro nero risulta avere un “pull effect” (o meglio un effetto calamita) sull’immigrazione illegalizzata in Italia. Infatti, molte occupazioni non esisterebbero se non facessero parte del settore dell’economia sommersa e molte delle piccole (e grandi) industrie agricole non avrebbero possibilità alcuna di sopravvivere se non ci fossero i lavoratori stagionali illegalizzati disposti, causa forze maggiori, ad accettare qualsiasi tipo di lavoro. Ciò, però, da vita ad un’ ulteriore conseguenza negativa visibile nell’effetto stigmatizzante secondo il quale la disponibilitá degli immigrati extra-europei ad accettare un lavoro poco desiderato e poco stimato tra i cittadini italiani, li posiziona in una fascia piú bassa della societá e questo, contemporaneamente, sembra rivelare ad una buona fetta di italiani aspetti negativi circa le loro qualitá umane.
Ma cosa c’é di piú inumano che vivere in un ghetto come quello descritto da Lamine, privati dei piú elementari diritti umani? Un luogo che diventa anch’esso uno stato d’eccezione sotto gli occhi di tutti e che finisce per diventare “normale”, per trovare accettazione e indifferenza tra i piú.
Molti dei lavoratori stagionali percepiscono questa esperienza in maniera devastante per la psiche. La maggior parte delle persone intervistate sentono che le loro vite sono esclusivamente nelle mani dei loro capi neri. Sentono di non aver nessun tipo di sicurezza e che gli possa esser fatto torto o ingiustizia in qualsiasi momento.
Solo pochi coraggiosi hanno la forza di prendere in mano la situazione e di avviare un percorso che persegue come obiettivo finale una vita nella legalitá. Con la complicitá delle istituzioni si avvia nel 2012 il progetto dell’ “Ecovillaggio Sankara” per il conseguimento della chiusura (piú o meno) immediata del ghetto di Rignano ed il loro progressivo spostamento all’ecovillaggio, luogo in cui lo slogan “vivere nella legalitá” sarebbe dovuto essere parola d’ordine. Regolari permessi di soggiorno e regolari contratti di lavoro rappresentavano i punti di partenza in tale progetto. Ma la voce di Lamine ci confronta con un’altra realtà: “Ma che contratti? Non abbiamo mai visto dei contratti o permessi di soggiorno, sono delle parole che entrano di qua e escono di lá, non abbiamo visto niente. M’hanno detto all’inizio (le cooperative e associazioni italiane parte di questo percorso) che quando sei qua dobbiamo aiutarti ad avere un permesso di soggiorno per lavorare senza il lavoro nero, ma da quando sono qua non ho mai visto neanche una persona che mi abbia fatto questa proposta.”
Ad oggi, il ghetto di Rignano continua ad essere parte integrante dello scenario delle campagne in Capitanata, immobile, bruciato dal sole ed insensibile alle sofferenze umane, mentre il progetto dell’ “Ecovillaggio Sankara” sembra quasi essersi trasformato in una reminiscenza, un paesaggio spettrale dimenticato da tutti, ma il cui nucleo pullula e pulsa vita. A maggio 2015 é abitato da 10 membri dell’Associazione “Ghetto Out”, per lo piú senegalesi, giovani (e una famiglia) desiderosi di portare a termine ció che da tempo é stato iniziato: “Noi siamo costretti ad andare avanti perché abbiamo fatto una lotta da anni per avere questo posto che si chiama Casa Sankara, oggi non possiamo andare via o lasciare questo posto. [..] Vogliamo lavorare con le istituzioni, in particolare con la regione Puglia, noi siamo pronti ad andare avanti in questo progetto di autocostruzione e agricoltura, siamo pronti, anche oggi. [..] ma siamo bloccati, qua siamo senza niente, senza i mezzi di trasporto, senza il cibo, senza acqua, siamo senza niente. Neanche un centesimo per comprare una scheda telefonica per chiamare la tua famiglia, non abbiamo piú niente.” Ancora una volta un gruppo di immigrati a cui erano stati promessi mari e monti si ritrova ad essere stato strumentalizzato e vittima di sfruttamento. Ci chiediamo quando finirá tutto questo!
E quasi come al tramonto di un sogno Lamine termina la sua intervista con queste parole che riecheggiano nella solitudine di una campagna ormai stanca di soprusi: “Dobbiamo lottare per il nostro avvenire qua a Casa Sankara”.