„In questo momento ne avevo abbastanza e volevo anche andare via se fossimo riusciti a trovare un aereo perché ero stanco di questa cosa, vivere sempre come un criminale. Perché quando hai la merce devi sempre nasconderti […] e quando ti prendono a volte ti sequestrano la merce e ti dicono ‘vai via’, se la portano loro, non sappiamo cosa succede a questa merce ma se la portano loro. Qualche volta ti prendono e ti portano in caserma […] e ti ritrovi con un foglio di via. […] Questa é la giornata di un venditore ambulante che ogni giorno, ogni momento sta rischiando la sua vita. […] Alla fine noi ci siamo detti: basta essere arrestati, noi vogliamo vivere nella legalitá“. Queste le parole di Herve durante un’ intervista che racconta la sua esperienza di vita da immigrato, seguendo un itinerario che ripercorre le tappe di un “viaggio della speranza”, partendo dal Senegal, passando dalla Francia e dal Belgio per arrivare in quella Puglia che oggi rappresenta una delle mete piú gettonate nel turismo italiano. Una storia che racconta il dramma di ogni immigrato “extra-comunitario” ed il terrore con cui si é costretti a convivere quotidianamente essendo identificati come clandestini, essendo privati di un diritto umano da considerare necessariamente universale e non per soli cittadini dell’Unione Europea: il diritto di libera circolazione sui territori. Restringendo la libertà di circolazione a pochi eletti non solo viene materializzata la discriminazione, ma si va ad attaccare anche il concetto in sé di persona umana (e di diritti della persona umana). Si, perché in realtá esiste un diritto dei cittadini, un diritto speciale degli stranieri ed un diritto “specialissimo” degli stranieri irregolari, non un diritto delle persone umane, risultando cosí quanto mai attuale l’osservazione della teorica Hannah Arendt: «la perdita dei diritti nazionali ha portato con sé in tutti i casi la perdita dei diritti umani» e ancora «privati dei diritti umani garantiti dalla cittadinanza si trovano ad essere senza alcun diritto, schiuma della terra».
Vivere da “clandestini” significa, inevitabilmente, convivere quotidianamente con il terrore di poter essere rimpatriato, poiché essere fermati senza documenti che attestino il possesso di un permesso di soggiorno significa, nella maggior parte dei casi, ricevere un foglio di via, o meglio, un mandato di espulsione dall’Italia. Tale paura é presente quotidianamente nei loro pensieri e produce vite spezzate, vite vissute nell’incertezza e nella consapevolezza che progettare e costruire un futuro risulta praticamente impossibile.
La seguente intervista racconta la storia di uno dei tanti clandestini che, per poter sopravvivere e sprovvisto di un “regolare” permesso di soggiorno, é costretto a vendere prodotti contraffatti (una delle poche attivitá lavorative (“illegali”) possibili per lui), fatto che trasforma la sua esistenza e la propria immagine del se in quella di un criminale. Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, il perché Herve non abbia deciso di ritornare in Senegal considerato lo stato in cui versava e considerando il fatto che le sue origini non portavano con se quel sapore di povertá. Durante un fuori intervista Herve spiega come la sua necessitá di rimanere in Italia sia stata legata al fatto di avere una famiglia molto numerosa in Senegal (10 fratelli e un padre anziano, oggi deceduto). Pertanto, per permettere ai suoi fratelli di poter portare avanti gli studi universitari (troppo costosi per poter essere sostenuti dalla sua famiglia in Senegal e avendo lui la responsabilitá di adempiere a questo compito essendo il fratello maggiore), l’unica via percorribile risiedeva nella sua permanenza in Italia. Ció ha poi, effettivamente, reso possibile che i suoi fratelli e sorelle intraprendessero e portassero a termine il proprio percorso di studi.
In Italia, peró, Herve viene reso un criminale perché COSTRETTO dal sistema a vendere prodotti contraffatti (in quanto lui stesso “illegale”), al contrario dei suoi fratelli italiani che possono “liberamente” comprare la sua merce senza correre il rischio di essere identificati come criminali, e dico “liberamente” perché neanche quella risulta essere una libera scelta. Perché? Perché chi comprava da lui “sono avvocati, persone di tutti livelli sociali, sono quegli italiani che vogliono vestirsi bene o che vogliono la roba firmata e non hanno i mezzi, non hanno la possibilitá”. L’essere costretti a vendere prodotti contraffatti e, in qualche modo, anche a comprarne é la conseguenza diretta di un meccanismo infernale che produce cittadini di serie A e di serie B che non possono permettersi un lavoro “legale” o una marca originale acquistando, cosí, prodotti illegalizzati. Perché le multinazionali, a braccetto col nostro sistema, ci rendono schiavi imponendoci i loro prodotti, insegnandoci valori privi di contenuto e convincendoci che per essere al passo coi tempi e per essere degni di esibirsi in pubblico senza provare vergogna bisogna vestire dolce & gabbana, armani, puma ecc….
Alla base di un’enorme piramide gerarchica creata ad hoc sono collocate, come la storia ci insegna, le fasce deboli e vulnerabili della societá quali, ad esempio, persone sprovviste di permesso di soggiorno e, pertanto, costrette all’ “illegalitá” per garantire la propria sopravvivenza (durante il video sará possibile capire il perché). E sono quegli stessi innocenti e, allo stesso tempo, vittime di un sistema criminale, a venire arrestati per aver venduto quattro paia di jeans contraffatti e non chi questo sistema, questo circolo vizioso, lo ha creato ad opera d’arte.
Il video ha subito lievi tagli al fine di proteggere dati sensibili e la privacy dell’intervistato. La terminologia utilizzata quale “criminale” ed “illegale” é stata volutamente e provocatoriamente scelta poiché rappresenta la categoria empirica utilizzata dalle autoritá italiane nei discorsi pubblici e tra gli stessi immigrati. Si tratta di una categoria legale e discorsiva di esclusione e viene qui utilizzata al fine di provocare una riflessione critica sull’utilizzo diffuso di tale terminologia.