Torre Del Greco (Campania) 18 settembre 2014

DEIULEMAR:DAL 1998 OBBLIGAZIONISTI IN CAUSA CONTRO DEIULEMAR

Facendo una ricerca è uscita questa sentenza del 2007 tra obbligazionisti e Deiulemar. Il problema di fondo è sempre lo stesso: con obbligazioni di carta straccia passate tra le mani di avvocati e giudici possibile mai che nessuno se né accorto dell’irregolarità delle obbligazioni , che già allora raggiungevano 800 / 900 milioni di euro di debito obbligazionario??? Siamo in un sistema di Alta Delinquenza , per questo è scomparsa l’associazione a delinquere e così scompariranno gli anni di condanna inflitti.
……..segue il fatto e la sentenza trovata:
Cassazione civile , sez. I, 09 ottobre 2007 , n. 21098

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente –
Dott. FIORETTI Francesco Maria – Consigliere –
Dott. FELICETTI Francesco – rel. Consigliere –
Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –
Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
C.E., elettivamente domiciliato in ROMA LUNGOTEVERE
FLAMINIO 46, presso il Dott. GREZ Gian Marco, rappresentato e difeso
dagli avvocati SALVIA Antonio Alessandro, SALVIA Emilio Paolo,
TRUNCELLITO Rocco, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
D.G.M., elettivamente domiciliata in ROMA VIA DI
PIETRALATA 320, presso l’avvocato MAZZA RICCI Gigliola, che la
rappresenta e difende unitamente all’avvocato DEL POZZO Mario, giusta
procura a margine dei controricorso;
– controricorrente –
contro
DEIULEMAR COMPAGNIA DI NAVIGAZIONE S.P.A., in persona
dall’Amministratore Unico pro tempore, elettivamente domiciliata in
ROMA VIA CRESCENZIO 103, presso l’avvocato FOMARICI Romano,
rappresentata e difesa dagli avvocati BOVE Lucio, PORZIO Mario,
giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1147/03 della Corte d’Appello di NAPOLI,
depositata il 03/04/03;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
17/09/2007 dal Consigliere Dott. FELICETTI Francesco;
udito, per la resistente D.G., l’Avvocato MAZZA RICCI
Gigliola, che ha chiesto il rigetto del ricorso;
udito, per la resistente DEIULEMAR, l’Avvocato BOVE Lucio, che ha
chiesto il rigetto del ricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
SCHIAVON Giovanni, che ha concluso per l’inammissibilità o comunque
il rigetto del ricorso.

Inizio documento
Fatto
1 La DEIULEMAR Compagnia di navigazione s.p.a., con citazione 28 luglio 1998 notificata a C.E. e D.G.M., li conveniva dinanzi al tribunale di Napoli esponendo: che il C. aveva sottoscritto 11.000 obbligazioni al portatore da essa emesse per un valore nominale di L. 1.100.000.000; che il C. nel marzo del 1997 aveva dichiarato di avere smarrito il relativo certificato obbligazionario ottenendone un duplicato in attesa di espletare la procedura di ammortamento; che gli era stato consegnato un certificato del valore nominale di L. 1.250.000.000, avendo egli dichiarato di volere reinvestire gli interessi maturati; che successivamente si era presentata la D.G., coniuge del C., esibendo l’originale del certificato e chiedendo la restituzione del capitale ed il pagamento degli interessi; che immediatamente dopo il C. aveva chiesto a sua volta la restituzione del capitale e degli interessi maturati; che essa attrice aveva allora versato presso l’Istituto San Paolo di Torino, a disposizione del C., coniugato con la D.G. in regime di comunione patrimoniale, la somma di L. 1.400.000.000, da versarsi “a chi di diritto, previa consegna dell’originale del certificato”. Ciò premesso, la Deiulemar chiedeva che fosse dichiarata la legittimità del proprio operato. Il C. si costituiva deducendo che la sottoscrizione delle obbligazioni era stata da lui fatta utilizzando esclusivamente i proventi del proprio lavoro professionale e che solo al momento dello scioglimento della comunione legale i proventi di tale attività, a norma dell’art. 177 c.c., comma 1, lett. c), sarebbero entrati nella communio de residuo, mentre fino a tale momento gli appartenevano in via esclusiva. Deduceva che, comunque, i su detti proventi non rientravano tra i beni in comunione fra i coniugi, essendo rappresentativi di diritti di credito che per la loro natura relativa e personale non potevano cadere nella comunione e, pertanto, illegittimamente la Deiulemar si era rifiutata di rimborsargli l’importo dei titoli, essendo egli l’unico titolare del credito e, in ogni caso, vertendosi nell’ipotesi di cui all’art. 184 c.c., comma 3. Deduceva altresi che illegittimamente la società attrice aveva subordinato il pagamento alla restituzione del certificato originale, avendo essa ritirato e distrutto il duplicato ed essendo a conoscenza che l’originale era stato abusivamente appreso dalla D.G.. Il C. chiedeva quindi il rigetto della domanda attrice, la declaratoria dell’insussistenza della comunione sull’importo investito e la consegna della relativa somma, con interessi, rivalutazione, nonchè la condanna al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, anche a carico della D. G., da condannarsi alla restituzione del certificato obbligazionario. Quest’ultima si costituiva a sua volta, confermando di essere coniugata con il C. e di trovarsi in regime di comunione legale.
Deduceva di avere mantenuto la famiglia, formata da cinque figli, con il proprio lavoro di medico, avendo il marito sempre versato un contributo inadeguato a tale mantenimento; di avere rinvenuto il certificato obbligazionario in questione fra le carte di casa, e di avere inteso utilizzare l’importo dello stesso, o quanto meno gli interessi maturati, per le necessità familiari, stante il disinteressamento del marito ed il suo coinvolgimento in vicende extraconiugali. Deduceva che tutti i proventi dell’attività professionale dei coniugi entravano nella comunione legale e, comunque, vi ricadevano gli acquisti fatti con tali proventi.
Chiedeva che fosse dichiarato che le somme portate dal certificato in questione facevano parte della comunione legale fra i coniugi, con le pronunce consequenziali in ordine all’attribuzione.
Il tribunale accoglieva le domande della società attrice e quella della D.G., dichiarando che le obbligazioni in questione, e quindi il relativo importo , appartenevano a entrambi i coniugi.
Accoglieva parzialmente la domanda riconvenzionale del C. nei confronti della moglie, condannando quest’ultima a reintegrarlo nel possesso del certificato obbligazionario.
Rigettava ogni altra domanda e compensava fra le parti le spese. Il C. proponeva appello, deducendo che, contrariamente a quanto affermato nella sentenza impugnata, la sottoscrizione di un certificato obbligazionario non è riconducibile all’ipotesi prevista dall’art. 177 c.c., lett. a), non avendo dato luogo all’acquisto di alcun bene, ma si era sostanziata in un mero accantonamento di proventi. Chiedeva la riforma della sentenza impugnata con l’accoglimento delle proprie domande. La Deiulemar proponeva appello incidentale limitatamente alla compensazione delle spese di giudizio.
La D.G. resisteva al gravame.
La Corte di appello di Napoli, con sentenza 3 aprile 2003, rigettava entrambi gli appelli. Avverso la sentenza il C. ha proposto ricorso a questa Corte con atto notificato alla Deiulemar e alla D. G. in data 17 maggio 2004. Entrambe le parti resistono con contro ricorsi notificati il 23 ed il 25 giugno 2004. La Deiulemar ha anche depositato memoria.


Inizio documento
Diritto
1 Il ricorrente, dopo avere citato la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale andrebbe escluso che i diritti di credito possano cadere in comunione legale fra i coniugi ai sensi dell’art. 177 c.c., comma 1, lett. a), con il primo motivo di ricorso denuncia la violazione degli artt. 177 c.c., lett. a) e lett. c), per avere la Corte di appello applicato alla fattispecie la lett. a), anzichè la lett. c), giudicando le obbligazioni oggetto del contendere un investimento, come tale oggetto della comunione legale fra i coniugi, mentre in realtà era unicamente un mezzo di salvaguardia del danaro dalla svalutazione. La Corte di appello, infatti, pur ritenendo i titoli obbligazionari acquistati con i proventi dell’attività professionale del ricorrente, erroneamente li avrebbe considerati un “acquisto” in quanto “investimento” del proprio risparmio.
Con il secondo motivo il ricorrente denuncia sostanzialmente la violazione dell’art. 177 c.c., comma 1, lett. c), riferendosi la motivazione della Corte di appello al capitale, mentre “tutt’al più acquisto potrebbero essere considerati gl’interessi, ma mai il capitale, che rimane integro sia nell’aspetto quantitativo che qualitativo”.
Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la contraddittoria e insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, per avere la Corte di appello, per un verso, affermato che le obbligazioni sono titoli di massa che, a differenza delle azioni, attribuiscono la qualità di creditore della società e sono assimilabili ad un mutuo e dall’altro applicato alla fattispecie l’art. 177 c.c., lett. a), non riferibile a beni diversi da quelli aventi natura reale e, in particolare, al denaro oggetto di crediti, idoneo a far parte solo della comunione de residuo.
I primi due motivi del ricorso vanno esaminati congiuntamente e sono infondati, mentre il terzo motivo è inammissibile.
2 Va premesso, riguardo ai primi due motivi,- per quanto rileva in questa sede che la sentenza impugnata ha rilevato che la Deiulemar Compagnia di Navigazione s.p.a. aveva emesso prestiti obbligazionari ad un tasso d’interesse annuo del 14% e l’odierno ricorrente C. E., in regime di comunione legale con la moglie, aveva sottoscritto, nel 1996, 11.000 obbligazioni, del valore nominale di L. 10.000 ciascuna, con emissione del relativo certificato. Ha rilevato che nel marzo del 1997 l’odierno ricorrente aveva dichiarato di avere smarrito il relativo certificato obbligazionario, ottenendone un duplicato in attesa di espletare la procedura di ammortamento del valore nominale di L. 1.250.000.000, avendo dichiarato di volere reinvestire gli interessi maturati. Che, successivamente, si era presentata la D.G., coniuge del C., esibendo l’originale del certificato e chiedendo la restituzione del capitale ed il pagamento degli interessi, mentre immediatamente dopo il C. aveva chiesto a sua volta la restituzione del capitale e degli interessi maturati. La sentenza ha rilevato ancora che la società attrice aveva versato presso l’Istituto San Paolo di Torino, a disposizione del C., coniugato con la D.G. in regime di comunione patrimoniale, la somma di L. 1.400.000.000, da versarsi “a chi di diritto, previa consegna dell’originale del certificato”, chiedendo con l’azione subito dopo promossa che fosse dichiarata la legittimità del proprio operato.
Avversando tale domanda il C., deducendo che la sottoscrizione delle obbligazioni era stata da lui fatta utilizzando esclusivamente i proventi del proprio lavoro professionale e che solo al momento dello scioglimento della comunione legale i proventi di tale attività entrano nella communio de residuo, aveva contestato tale legittimità, chiedendo il rigetto della domanda stessa e la consegna della somma su detta, oltre accessori, nonchè la condanna al risarcimento dei danni a carico della D.G., da condannarsi anche alla restituzione del certificato obbligazionario. La sentenza ha osservato che la D.G., a sua volta, aveva dedotto che gli acquisti fatti con i proventi dell’attività professionale dei coniugi entravano nella comunione legale.
La Corte di appello avendo il tribunale accolto le domande della società attrice e quella della D.G., dichiarando che le obbligazioni in questione, e quindi il relativo importo, appartenevano a entrambi i coniugi ed avendo il C. proposto appello rigettava il gravame affermando che “i titoli obbligazionari per cui è causa, pur essendo stati acquistati con i proventi dell’attività separata dell’appellante, rientrano nella comunione prevista dall’art. 177 c.c., comma 1, lett. a), in relazione agli acquisti effettuati durante il matrimonio da uno solo o da entrambi i coniugi in regime di comunione legale”. A tal fine ha osservato che deve ormai ritenersi superata l’opinione secondo la quale la comunione legale fra i coniugi può riguardare solo diritti reali e non anche i diritti di credito, dovendosi ritenere fondata l’interpretazione dell’art. 177 c.c., comma 1, lett. a), secondo la quale fra gli “acquisti” ivi indicati, che entrano a far parte della comunione legale ove non espressamente esclusi, rientrano tutti gli “investimenti” compiuti da ciascun coniuge, “qualunque sia la natura del diritto che ne formi oggetto”. La Corte ha parallelamente ritenuto priva di fondamento la tesi dell’appellante secondo la quale la sottoscrizione di titoli obbligazionari non costituisce un “acquisto” in senso tecnico, ma una forma di accantonamento del denaro, essendo le obbligazioni di società titoli di massa, rientranti nell’ampia nozione di “beni mobili” delineata dall’art. 812 c.c., comma 3, ed essendolo, in particolare, il certificato ob- bligazionario al portatore oggetto del giudizio, non assimilabile in alcun modo al denaro depositato presso una banca.
Tali affermazioni, contrariamente a guanto si deduce con il ricorso, sono esatte.
In proposito va considerato che la tesi, fatta propria anche da alcune decisioni di questa Corte, secondo la quale solo i diritti reali potrebbero rientrare, per ragioni di principio, fra gli “acquisti” previsti dall’art. 177 c.c., comma 1, lett. a), nella comunione legale fra i coniugi, non appare sostenibile alla stregua di un più approfondito esame della problematica relativa, non esistendo validi argomenti di ordine letterale o sistematico che la giustifichino.
Sotto l’aspetto letterale l’art. 177 c.c., comma 1, lett. a), disponendo genericamente che costituiscono oggetto della comunione “gli acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali”, contraddice tale tesi, apparendo dal punto di vista letterale idoneo a ricomprendere gli atti acquisitivi di ogni genere di “bene”, inteso quale oggetto di ogni tipo di diritti, non contenendo la norma alcuna specificazione delimitativa (Cass. 27 maggio 1999, n. 5172).
Sotto il secondo aspetto va poi ritenuto privo di fondamento l’argomento, addotto a sostegno della su detta tesi, in base al quale vi rientrerebbero solo i diritti reali in quanto la comunione, collocata dal codice nel libro della proprietà, secondo quanto previsto dalla sua disciplina generale, potrebbe avere per oggetto solo tali diritti. A prescindere dalla esattezza di tale ultimo assunto, infatti, la comunione legale fra i coniugi è un tipo di comunione non riconducibile a quella regolata dell’art. 1100 c.c., e segg. e, quindi, sottratta alla disciplina che la regola ed ai relativi principi.
Come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 311 del 1988 e da questa Corte nelle sentenze 19 marzo 2003, n. 4033 e 7 marzo 2006, n. 4890, la comunione legale fra i coniugi, a differenza da quella ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto tutti i beni di essa. Ne consegue che, nei rapporti con i terzi, ciascun coniuge, mentre non ha diritto di disporre della propria quota, può tuttavia disporre dell’intero bene comune, ponendosi il consenso dell’altro coniuge (richiesto dal dell’art. 180 c.c., comma 2, per gli atti di straordinaria amministrazione) come un negozio unilaterale autorizzativo che rimuove un limite all’esercizio del potere dispositivo sul bene. Esso ove si tratti di un bene immobile o di un bene mobile registrato, rappresenta un requisito di regolarità del procedimento di formazione dell’atto di disposizione, la cui mancanza si traduce in un vizio da far valere nei termini fissati dall’art. 184 c.c.. Viceversa per ciò che concerne gli atti di disposizione di beni mobili, l’art. 184 (comma 3) non prevede detto consenso, limitandosi a porre a carico del coniuge che ha effettuato l’atto in questione l’obbligo di ricostituire, ad istanza dell’altro, la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto o, qualora ciò non fosse possibile, di pagare l’equivalente del bene secondo i valori correnti all’epoca della ricostituzione della comunione, senza stabilire alcuna sanzione di annullabilità o di inefficacia per l’atto compiuto in assenza del consenso del coniuge, atto che resta, pertanto, pienamente valido ed efficace. Disciplina, questa, applicabile agli atti dispositivi di titoli di credito.
Secondo quanto si evince da tali rilievi, pertanto la comunione legale fra i coniugi, come regolata dell’art. 177 c.c. e segg., costituisce un istituto che prevede uno schema normativo non finalizzato, come quello della comunione ordinaria regolata dall’art. 1100 c.c., e segg., alla tutela della proprietà individuale, ma alla tutela della famiglia attraverso particolari forme di protezione della posizione dei coniugi nel suo ambito, con speciale riferimento al regime degli acquisti, in relazione al quale la ratio della disciplina, che è quella di attribuirli in comunione ad entrambi i coniugi, trascende il carattere del bene della vita che venga acquisito e la natura reale o personale del diritto che forma oggetto.
Con la conseguenza che, in linea di principio, anche i crediti cosi come diritti a struttura complessa come i diritti azionari in quanto “beni” ai sensi degli artt. 810, 812 e 813 c.c., sono suscettibili di entrare nella comunione, o per effetto di donazione o successione (art. 179 c.c., comma 1, lett. b) ove specificamente stabilito nell’atto di liberalità ovvero nel testamento, oppure attraverso lo speciale meccanismo di acquisizione previsto dall’art. 177 c.c., comma 1, lett. a).
Fermo restando che, essendo stata la comunione fra i coniugi configurata dal legislatore come comunione parziale e non universale, si pone il problema di stabilire in che limiti operi detto meccanismo. Ciò tenuto conto che ciascun coniuge, pur in regime di comunione, resta titolare di un patrimonio individuale e di una sua autonomia, economica, dovendosi escludere, pertanto, che la comunione degli acquisti possa comprendere tutti indistintamente i diritti di credito che ciascun coniuge acquisisca con il suo operare.
In relazione a tale problematica questa Corte ha già statuito che i titoli di partecipazione azionaria, cosi come le quote di fondi d’investimento, costituendo componenti patrimoniali aventi un loro valore economico, anche se acquistati con i proventi della propria attività personale nel corso del matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione dei beni, entrano a far parte della comunione legale, ove non ricorra una delle eccezioni alla regola generale dell’art. 177 c.c., poste dall’art. 179 c.c.,(Cass. 18 agosto 1994, n. 7437; 23 settembre 1997, n. 9355; 27 maggio 1999, n. 5172).
Analoga soluzione una volta ritenuto, per quanto sopra detto, che anche i diritti di credito possono essere oggetto di acquisto alla comunione legale ai sensi dell’art. 177 c.c., comma 1, lett. a), deve essere adottata per i titoli obbligazionari acquistati da un coniuge con i proventi della propria attività personale. Ciò in correlazione con la ratio della norma, che è quella di far entrare nella comunione, in linea generale e salvo le specifiche eccezioni, ogni tipo di “bene” che ciascun coniuge acquisti nel corso del matrimonio, e tenuto conto che nella realtà economica moderna i valori mobiliari tra i quali rientrano i titoli obbligazionari costituiscono una delle forme più diffuse e significative d’investimento della ricchezza.
Le obbligazioni societarie sono titoli, al portatore o nominativi (art. 2412 c.c.), offerti ai risparmiatori a fronte di un’operazione di finanziamento, di durata più o meno lunga, destinati alla circolazione, i quali fruttano un interesse che può essere fisso o indicizzato a determinati parametri prestabiliti. Appartengono alla categoria dei titoli di massa ed hanno, nel corso della loro durata, un valore che può essere molto diverso da quello di emissione e di rimborso, collegato alle fluttuazioni del mercato in relazione all’andamento generale dei tassi d’interesse, nonchè all’affidabilità dell’emittente che può a sua volta mutare nel tempo in relazione alle sue fortune economiche alla cui solidità finanziaria è legata la rischiosità (nonchè, di solito, la stessa rimunerazione dell’investimento), non essendo, di regola, garantita la certa e integrale restituzione del capitale ed il pagamento degli interessi. Esse costituiscono, pertanto, una forma d’investimento del denaro non assimilabile in alcun modo al deposito bancario in conto corrente, il cui saldo non rientra nella comunione dei beni ex art. 177 c.c., comma 1, lett. a), (da ultimo Cass. 20 gennaio 2006, n. 1197) proprio perchè non rappresenta una forma d’investimento dello stesso, rientrando invece solo nella comunione da residuo ai sensi dell’art. 177 c.c., comma 1, lett. c).
Ne consegue l’acquisto di obbligazioni societarie, comportando l’impiego del denaro, provento dell’attività personale e separata di uno dei coniugi, in un bene giuridico diverso costituente una forma d’investimento, trasforma il “provento” dell’attività separata in un quid alii che, secondo la regola generale posta dall’art. 177 c.c., comma 1, lett. a), per tutti gli acquisti compiuti da ciascun coniuge in regime di comunione legale con i proventi della propria attività, entra a far parte della comunione legale immediata e non della comunione de residuo ai sensi dell’art. 177 c.c., comma 1, lett. c).
La Corte di appello ha adottato una statuizione conforme ai principi sopra esposti, confermando la sentenza di primo grado e implicitamente decidendo, secondo quanto si evince dal complesso della sua motivazione, anche sul punto dedotto con il secondo motivo del ricorso in esame, e cioè che, avendo l’odierno ricorrente investito somme costituenti proventi della propria attività personale in titoli obbligazionari, sia il relativo capitale sia i relativi interessi, facendo parte della comunione legale, appartenevano in comune ad entrambi i coniugi.
Ne deriva che i primi due motivi del ricorso sono infondati.
3 Quanto al terzo motivo, esso deve essere dichiarato inammissibile, deducendosi con esso un preteso vizio motivazionale relativo all’interpretazione dell’art. 177 c.c., mentre i vizi di motivazione (denunciabili come motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5) possono concernere esclusivamente l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia, non anche l’interpretazione e l’applicazione delle norme giuridiche (da ultimo Cass. 12 aprile 2006, n. 8612; S.U. 10 gennaio 2003, n. 261).
Il ricorso deve essere pertanto rigettato, con la condanna del ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alle spese del giudizio di cassazione che liquida in favore della D.G. nella misura di Euro novemilacento, di cui euro novemila per onorari, oltre spese generali e accessori come per legge, nonchè in favore della Deiulemar Compagnia di Navigazione s.p.a. nella misura di Euro diecimilacento, di cui diecimila per onorari, oltre spese generali e accessori come per legge.
Così deciso in Roma, il 17 settembre 2007.
Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2007