Succede a volte di ascoltare suoni belli e suoni brutti; Succede a volte di vedere scene belle e scene brutte; Succede ancora di assistere a regie magnifiche, inutili o talvolta irritanti. Ma succede ancora di ascoltare un artista il cui canto rimanga nelle orecchie e nel cuore per giorni?
Nel mondo del melodramma e soprattutto italiano vige una regola che è l’ossimoro dell’assurdo, ovvero un cantante deve essere maniacalmente rigoroso nel suono, nell’accento, nella parola, nel sentimento, nella struttura musicale, ma ancora deve essere ballerino, acrobata, attore e fin qui bene, ma soprattutto attento a non cedere nella interpretazione del suo sentimento musicale. Sembra un controsenso ma rivela esattamente quello che succede oggi nei teatri d’Opera. Direttori che regolano l’orologio al metronomo, registi che impongono all’esercito di Nabucco di ballare la samba, o ancora e peggio, assistere ad una recita di Madama Butterfly magari perfetta sotto il profilo sintattico-musicale e tornare a casa senza il filo di una emozione. Questo accade quando all’artista non è data la possibilità di esprimere il proprio sentimento, che è pianta che matura e si forma negli anni, dove però il dilettantismo di direttori d’orchestra in primis e registi poi, proni , uno alle note dello spartito e l’altro alla autocelebrazione, non offrono terreno fertile e solco ad una delle perle del nostro patrimonio musicale. L’artista, o meglio il cantante è “differito” a prove musicali che si trasformano in vere e proprie gare di velocità ritmica e d’orologio e il più delle volte solo ed esclusivamente per cercare di mettere insieme canto e orchestra. Non esiste più il direttore d’orchestra , se non rari esemplari, che si fermano a discutere sul senso della parola scenica, sulla frase, sulla interpretazione anche solo di una parola, di un respiro ( forse perché non ne sono in grado- qualcuno dirà che non c’ è tempo…vecchia) o per assurdo che chieda al cantante la sua idea in merito a ciò che deve cantare o ancora l’emozione che prova. Questo non è teatro, è la cornice dello stesso, dipinto di estetica falsa e velleità innaturali, in quanto giusto sarebbe una comunione di intenti dall’ ultimo violino di fila all’ultimo comprimario o corista, celebrare lo stesso autore, la stessa musica, lo stesso sentimento anche se con armonia interiore diversa.
Guardiamo al passato per incontrare la semplicità degli interpreti, la meticolosa riflessione personale sulla parola, che contiene quella scintilla che fa scattare il pubblico in piedi, che crea la magia della parola cantata e non del suono.
Ritorniamo al passato e creeremo di nuovo lo stesso spirito che ha infiammato le platee del mondo, consideriamoci meno specialisti o meccanicisti del pensiero, traducamolo in musica, in movimento estatico dell’anima vivente, altrimenti troveremo forse la luce nella perfezione della falsa estetica e la polvere in quella vera, che è vello del cuore dell’uomo.
Dal Loggione : “ Cosa suoni?” Cosa canti?”
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