Vasto (Abruzzo) 13 aprile 2018

” Il Cenacolo ” pittore Cesare Giuliani Vasto (CH).

Il Maestro Cesare Giuliani il 14 aprile 2018 dona alla chiesa parrocchiale di San Lorenzo Martire in Vasto, la preziosa tela (olio su tela dim. 400×200 cm) “ Il Cenacolo ”.

Cesare Giuliani nato a L’Aquila nel 1944 vive e lavora a Vasto. Partecipa con i pittori aquilani fino dagli anni giovanili alla vita artistica cittadina. Espone con successo in collettive e personali. Ultime presenze: nel 2003 una mostra retrospettiva a L’Aquila presso la sala Celestiniana di S. Maria di Collemaggio intitolata “ Sacro e Profano ”. Nel 2005 personale alla sala Mattioli di Vasto. Nel 2008 l’artista esegue una Pala “ S. Giuseppe Lavoratore ” per la chiesa della S.S. Annunziata di Vasto. Nello stesso anno partecipa al XLI Premio Vasto “ Metamorfosi del fantastico ” L’immagine ritrovata. Nel 2009, a Villa Borbone di Viareggio partecipa alla mostra “ Le Costellazioni ” della figura, del paesaggio, della forma, della materia, organizzata dal Comune di Viareggio e dall’ associazione Caleidoscopio. Nel 2010 presso il museo d’arte moderna “ Vittoria Colonna ” partecipa alla terza edizione di “ Pescarart 2010 ”. Lo stesso anno partecipa al XLIII Premio Vasto “ Memoria e Creatività ” I mille occhi della Sfinge. Nel 2011 inagura una personale alla Mattioli di Vasto. Nel 2012 è presente alla quarta edizione di Pescarart presso il museo d’arte “ Vittoria Colonna ” di Pescara, al XXXIX Premio Sulmona presieduto da Vittorio Sgarbi, alla sesta Triennale d’Arte Sacra di Lecce e alla prima edizione della mostra di Arti Visive di Atri. Sempre nello stesso anno realizza una importante opera “ Il martirio di S. Lorenzo ” per la chiesa omonima di Vasto. Nel 2014 la città di Vasto gli conferisce il premio S. Michele. Nel 2016 al XLIX Premio Vasto “ Archeologie a Venire ”. Nel 2017 riceve il premio “ Histonium d’oro ” per meriti artistici, nel settembre dello stesso anno inaugura nella sala Mattioli una mostra di arte Sacra e a dicembre è presente al 68° Premio Michetti.

Silvia Pegoraro

LA PITTURA SACRA DI CESARE GIULIANI E L’EPIFANIA DEL VOLTO

Speciosus forma es prae filiis hominum

Salmo 45,3

La Chiesa ha da sempre visto nell’arte un importante mezzo di comunicazione, e questo perché, come ha scritto Giovanni Paolo II, “ogni forma autentica di arte è, a suo modo, una via di accesso alla realtà più profonda dell’uomo e del mondo” e “ha un’intima affinità con il mondo della fede” (Lettera agli artisti, 1999). Per secoli la storia della Chiesa è stata dunque segnata dal “rapporto fraterno” (Benedetto XVI) tra arte e liturgia, tra arte e fede.
Con l’avvento della Modernità e con la secolarizzazione dell’Occidente, di cui le Avanguardie sono figlie, quel legame si è quasi completamente spezzato. L’arte del Novecento ha per lo più accantonato il divino, quando non l’ha addirittura irriso, parodiato, profanato. Di certo ha quasi sempre smarrito la via del sacro. Il filosofo tedesco Hans-Georg Gadamer arriva a una sentenza ancora più estrema: secondo lui, ad essersi spezzato è proprio il rapporto tra arte e vita.
I linguaggi dell’arte contemporanea, soprattutto quelli più sperimentali, hanno in gran parte eliminato la figura umana (che era un veicolo efficace di comunicazione); hanno puntato su valori formali più che contenutistici, diventando di ardua lettura per il pubblico, che ne viene coinvolto con difficoltà, specie quando gli siano proposti come referenti devozionali o liturgici. D’altra parte, nella cultura contemporanea, l’immagine diventa sempre più lo strumento di comunicazione privilegiato, e la Chiesa deve sforzarsi di restare attuale in quest’epoca e in questa cultura.
Già a metà del ‘900 sembrava essersi delineato un bivio: da un lato l’arte delle gallerie e del mercato, dall’altra quella “ecclesiastica”, arroccata su moduli tradizionalisti, non più in grado di comunicare con forza la verità, e spesso consegnata a quel cattivo gusto, a quel kitsch acutamente analizzato dal grande critico e studioso di estetica recentemente scomparso ultracentenario, Gillo Dorfles. Proprio Dorfles, nel 1998, dalle pagine del Corriere della Sera, fu fra i primi a sollevare la questione del rapporto arte-Chiesa, arte-liturgia, con un articolo intitolato Religione e modernità. Dorfles si chiedeva come spiegare il fatto che “l’arte religiosa, che pure dominò nell’Occidente cattolico per un’ininterrotta serie di secoli, abbia perso oggi quasi ogni diritto di cittadinanza e abbia dato ben poche prove di sé se non in qualche opera architettonica”.
Monsignor Timothy Verdon riprendeva la questione sull’ “Osservatore Romano” (12 gennaio 2008), inserendosi in un dibattito che aveva visto impegnati, oltre a Dorfles, l’autorevole filosofo Emanuele Severino e lo storico dell’arte Paolo Biscottini, allora direttore del Museo Diocesano di Milano.
Scriveva Verdon che la domanda di Dorfles rimane del tutto attuale, date le applicazioni spesso maldestre degli sperimentalismi contemporanei all’arte sacra, e i risultati quasi sempre deludenti degli artisti in questo campo. Ma è anche una domanda a cui è sempre più urgente dare una risposta, per l’importanza che la Chiesa è tornata ad attribuire in questi ultimi decenni all’immagine sacra, definita da Benedetto XVI come una forma privilegiata di “predicazione evangelica”. Perché si può dire forse che il sacro è non solo ciò che può porsi in letterale riferimento alla storia sacra, ma ciò che esprime la verità dell’uomo, e che l’esperienza del sacro è indissolubilmente legata allo sforzo compiuto da ogni uomo per riconoscere un significato all’esistenza.
Proprio in questa direzione sembra andare la pittura sacra di Cesare Giuliani: essa sembra significare esattamente questa ricerca di Verità, nella sua molteplicità di aspetti e figure. Figure che sono nello stesso tempo exempla nitidi ed esatti delle Sacre Scritture e immagini concrete e potenti della vita umana, dalle quali emerge l’eterna ricerca della bellezza come trascendenza. Così avviene nel Cenacolo e nel martirio di San Lorenzo, le opere di grandi dimensioni donate alla Chiesa di San Lorenzo a Vasto.
Giuliani sembra dunque aver accolto sin dall’inizio del suo percorso artistico l’essenza del Messaggio agli artisti che, in chiusura del Concilio Vaticano II (8 dicembre 1965) formulò Paolo VI: “Questo mondo nel quale noi viviamo ha bisogno di bellezza, per non cadere nella disperazione”. Paolo VI era così preparato e propenso a sostenere gli artisti contemporanei che intendessero percorrere la via del sacro, da aprire gli spazi prestigiosi dei Musei Vaticani ad una Collezione Vaticana d’arte religiosa Moderna, adoperandosi per richiamare gli artisti nella loro “casa, quella di sempre” (Allocuzione del 7 maggio 1964), poiché – come confidò a Jean Guitton – considerava la funzione dell’artista affine a quella del sacerdote. Proprio di questa funzione sembra essersi fatto carico Cesare Giuliani, forte del concetto – ribadito dal Concilio Vaticano II – che l’arte contribuisce a rendere la liturgia più chiara e accessibile: perché la liturgia si avvale di segni, di immagini e di gesti che insieme concorrono a facilitare la comprensione dei misteri che essa propone. Un rapporto da sempre esistito, ma caduto di fronte ai linguaggi dell’arte contemporanea, spesso non idonei ad esprimere il rapporto con la trascendenza.
Giovanni Paolo II, anch’egli artista, si è a sua volta impegnato profondamente a ricomporre l’intesa tra arte e committenza ecclesiastica, anche scrivendo agli artisti quella lettera di grande sensibilità ( 4 aprile 1999 ), a cui si è accennato in apertura.
E tale rapporto d’intesa tra arte e committenza ecclesiastica si evidenzia felicemente in queste opere donate alla Chiesa di San Lorenzo da Cesare Giuliani: esempio brillante e toccante di quel matrimonio tra liturgia, spazio sacro e arte contemporanea che, allo stato attuale, continua a essere generalmente difficile e incerto, assente o foriero di un preoccupante dilagare di lavori di pessimo gusto.
Con la sua arte sacra, Giuliani sembra opporsi all’idea eccessivamente “spiritualizzata” di spiritualità che, nonostante il dogma dell’incarnazione, caratterizza il Cristianesimo nelle sue radici più legate al neoplatonismo, con la sua diffidenza verso la sensorialità, ulteriormente rafforzata in epoca moderna dalla priorità concettuale attribuita alla soggettività. Il pittore vastese (ma aquilano di nascita) riporta alla ribalta con grande vitalità ed energia il Cristianesimo inteso come “la religione più sensoriale mai esistita” (Karl Mueller): per lui, spiritualità significa ciò che dà forma al centro concreto della vita religiosa nel suo complesso, comprendendo le differenti forze fondamentali dell’uomo: ragione, volontà e anima. Il termine si riferisce dunque a un atteggiamento basilarmente spirituale della vita dell’essere umano come homo viator, cioè come viandante, fluttuante tra la capacità teorica di orientarsi, l’esperienza concreta della vita e un’inclinazione poetico-religiosa alla speranza. Le opere di Giuliani riflettono così, dall’esterno e dall’interno, la soggettività aperta, fragile, tormentata dell’uomo. Osservandole, ci si rende conto di come l’arte possa simbolicamente indicare la trascendenza come base su cui orientare la vita: tutto ciò anche grazie all’emozione, che non si può comprendere per vie logiche e secondo motivazioni legate esclusivamente alla vita quotidiana terrena.
Alla comunità occidentale, che rincorre il progetto di emanciparsi da ogni trascendenza, il pittore Cesare Giuliani propone lo scandalo dell’Incarnazione, dell’umanità di Dio, che racchiude la chiave estetica del messaggio cristiano, secondo quanto emerge, ad esempio, da uno splendido libro di Sua Eccellenza Monsignor Bruno Forte, non a caso autore anche dell’omelia-saggio dedicata al Martirio di San Lorenzo di Giuliani, l’opera donata per prima, qualche anno fa, alla Chiesa di San Lorenzo.
Il libro in questione è La porta della bellezza. Per un’estetica teologica (Morcelliana, Brescia, 1999) che indaga sull’ “apporto della riflessione teologica alla concezione e all’esperienza della bellezza”. L’incarnazione del Figlio è la bellezza fatta persona, è il luogo scelto dall’Eterno per la sua libera espressione. La “forma” del Cristo è la misura che circoscrive il divino nel suo offrirsi agli uomini: egli è la rivelazione della bellezza che salva, e lo è secondo la duplice via della bellezza che è armonia e splendore – quella del “più bello fra i figli degli uomini” (Salmo 45,3) – e di quella terribile e inquietante dell’Uomo dei dolori (“e mediante le sue lividure noi siamo stati guariti”, Isaia, 53,5).
Purtroppo, avverte l’autore, oggi si deve assistere a un complessivo declino della bellezza, e lo si vede quando il bello viene ridotto a bene di consumo, a maschera che rinuncia alla ricerca della verità. A tale declino si oppone la meditazione religiosa che prende corpo nelle immagini di un artista come Giuliani, il quale, se da una parte prende atto dell’umana fragilità, dall’altra ci conduce sulla soglia della teologia, perché ci educa ad ascoltare la Parola nel Silenzio delle immagini, e a scorgere così l’Assoluto nella fragilità dell’immagine come frammento.
Giuliani assume la figurazione pittorica in quanto figurabilità della Storia Sacra, fondata sulla Incarnazione del Cristo. Il pittore concepisce l’immagine quale la concepivano i Padri della Chiesa: come il luogo nel quale, come un miracolo, si donava l’altro dal visibile, quell’altro che doveva essere venerato (e non adorato come se fosse un idolo ) attraverso l’immagine stessa. Individuando nella problematica dell’Incarnazione il fondamento della legittimità delle immagini nelle icone, i Padri della Chiesa avevano superato la teoria platonica della rappresentazione come copia. Attraverso l’Incarnazione, infatti, Dio si offre nel mondo come un dono, non previsto e non spiegabile: è questo il Cristo che è, si dà, nel mondo, senza essere del mondo. Si trattava, è vero, in quel caso, di una teologia dell’immagine che non aveva niente a che vedere con un programma artistico, dal momento che era allora ignota la nozione moderna di «opera d’arte», ma ciò che è rilevante è il fatto che in una tale teologia si manifesti l’esigenza di qualcosa che, pur essendo altro dal visibile, si rivela tuttavia nel visibile stesso.
L’immagine, dunque, nella prospettiva di questa “estetica teologica” che anche il pittore vastese sembra abbracciare, non è solo un’apparenza che vela una presunta essenza, ma un’apparizione che rivela: è una rappresentazione e insieme una presentazione. Sembra valere, per l’immagine così intesa, quanto Walter Benjamin ha scritto a proposito dell’«aura» nel celebre saggio L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: «Che cos’è propriamente l’aura? Un singolare intreccio di spazio e di tempo: l’apparizione unica di una lontananza, per quanto possa essere vicina» 1. È proprio questo ciò che appare irrimediabilmente venire meno nella società moderna, come osserva anche uno studioso come David Freedberg, nel suo importante libro Il potere delle immagini 2. 2L’arte di Giuliani, invece, dove tutto sembra avvenire all’interno del tempo, restando tuttavia fuori da ogni tempo, pare proprio – secondo l’espressione di Benjamin – la vivida “apparizione di una lontananza”. Sembra volerci dire che l’incanto della figurazione supera tutte le epoche: questo rende i soggetti di Giuliani estranei a ogni caratterizzazione temporale, quindi capaci di narrare a ogni uomo. E questo vale in particolare per l’ultimo grande cimento del pittore Giuliani nel campo dell’arte sacra: l’Ultima cena, un soggetto arduo e complesso, che richiede anche una forte consapevolezza della propria abilità nella tecnica artistica.
Il grande fascino mistico di tale soggetto ha fatto sì che, per secoli, i grandi maestri della pittura si siano cimentati, attraverso tecniche diverse, nella raffigurazione di “alcune persone che cenano intorno a un tavolo”.
Si tratta di una cena ultima, appunto, una cena di addio, di commiato, in cui la presenza centrale sta per eclissarsi: l’ultimo pasto di Cristo coi discepoli è, dal punto di vista drammatico e simbolico, uno dei momenti culminanti del Vangelo. Qui, Gesù annuncia l’imminente tradimento di Giuda, quindi, anche, la propria morte; dall’altro, spezzando per l’ultima volta il pane e condividendo il vino con gli Apostoli, istituisce l’Eucarestia, il sacramento centrale della Chiesa.
L’Ultima Cena è una delle scene bibliche più popolari e rappresentate nella storia dell’arte. La più famosa è certo quella raffigurata nell’affresco realizzato da Leonardo da Vinci in Santa Maria delle Grazie a Milano, a cui si è ispirato persino Andy Warhol, in uno dei suoi ultimi lavori, tutt’altro che dissacrante, al contrario di ciò che si potrebbe pensare. Il confronto con le grandi rappresentazioni dei maestri precedenti è dunque inevitabile. Giuliani evita la via della stravaganza, della pura ricerca di novità, che non sempre approda a una raffigurazione adatta a uno spazio liturgico, o quanto meno a sviluppare nell’osservatore un senso di “silenzio” e “contemplazione”. D’altro lato, non eccede neppure nella citazione, nella ripresa troppo evidente delle opere dei grandi maestri, riuscendo ugualmente a creare un’opera esteticamente appagante. Giuliani crea un’atmosfera “senza tempo”, una rappresentazione in cui vivono molte altre rappresentazioni, già viste, nell’esperienza della tradizione, o ancora da vedere. La sua composizione è classica, con la mensa di forma rettangolare che ha prevalso nella storia della pittura occidentale, con la frontalità di leonardiana memoria. Forte è la sua consapevolezza di venire da una tradizione imprescindibile, ma grande anche la sapienza nel dosarne con cura la presenza, senza perdere la propria identità contemporanea. Infatti la rappresentazione è anche radicata nel tempo in cui l’artista l’ha creata, appartiene al nostro sguardo contemporaneo, perché popolata di figure che potremmo davvero immaginare di incontrare per strada.
Le figure della narrazione sono poste tra due campiture di colore contrastanti: il fondo scuro e la bianchissima tovaglia, che domina quasi tutta la fascia mediana del quadro, della quale intuiamo le leggerissime pieghe che la increspano. Grazie a questa scelta tonale, le figure emergono ben definite volumetricamente, con un’evidenza plastica particolarmente efficace. La tovaglia bianca ricopre un tavolo che s’indovina di legno, come gli sgabelli su cui siedono i commensali, sul quale solo il pane e un calice di vino indicano il mistero. Si tratta di un discorso narrativo che non indugia su complesse simbologie o barocchismi formali, ma coglie in umiltà e semplice chiarezza l’evento evangelico, con stupore e meraviglia, grazie al ritmo essenziale, poetico e musicale che Giuliani riesce a imprimere alla sua pittura.
Nel testo dei Vangeli che riguarda l’episodio dell’Ultima Cena, si di¬stinguono tre momenti: l’annuncio del tradimento, l’istituzione dell’Eucarestia e la Comunione degli Apostoli. L’arte primitiva cristiana evidenziò soprattutto l’intimo rapporto con il principale sacramen¬to della Chiesa, e nel repertorio delle catacombe abbiamo parecchie scene simboliche che si riferiscono all’Eucarestia, alla “fractio panis” e al “banchetto eucaristico”. Ma non è questo l’avvenimento del Cenacolo che ha trovato la più costante rappresentazione da parte degli artisti nei secoli successivi: nella raffigurazione dell’ul¬tima cena di Cristo con i suoi discepoli, essi si sono prevalentemente fissati sul tema del tradimento, del dramma umano che si svolge fra la vittima ed il traditore, fra Cristo e Giuda.
Il grande Jacopo Robusti, detto Il Tintoretto, nelle più tarde versioni delle sue splendide Ultime cene veneziane – in particolare quelle della chiesa di San Paolo (1570)della Scuola Grande di San Rocco (1578-1581), e soprattutto di San Giorgio Maggiore g(1592-1594) – mostrerà di aderire alle scelte iconografiche del Concilio di Trento (1545-1563), tornando a privilegiare il momento eucaristico rispetto a quello dell’annuncio del Tradimento di Giuda. Ma in una precedente versione, nella chiesa di San Marcuola (1547), Tintoretto aveva compiuto un’operazione, per così dire, di “condensazione visiva”, che ricorda quella oggi realizzata da Cesare Giuliani nel suo Cenacolo per la chiesa di San Lorenzo: proporre al pubblico di fedeli, all’interno dello stesso quadro, sia la rivelazione del tradimento che la celebrazione dell’Eucarestia. Al centro della sua limpida compagine strutturale, Giuliani pone la figura di Gesù, nell’atto che segna la sua memoria tramandata ai discepoli: la “fractio panis” dell’Eucaristia. Eppure si avverte che è stato appena comunicato il tradimento da parte di uno dei dodici. Sono i gesti degli apostoli, con le loro mani così vivide, a indicarcelo: è la gestualità a segnare la narrazione, a farci comprendere cosa sta accadendo. Sono, soprattutto, le espressioni dei volti a scolpire la verità di questo racconto iconografico. L’apparire del volto come attimale epifania di un’essenza richiede uno scarto minimo tra pensiero e resa pittorica: di qui la sintesi estrema del segno. Tutti gli apostoli sono individuati dall’artista, nella fisionomia che ne tradisce anche l’atteggiamento interiore. Si tratta di uomini che ci sembra di avere almeno una volta incontrato, nella nostra vita reale: uomini dagli sguardi seri, curiosi, turbati. Solo il volto e lo sguardo di Giuda ci sono negati, segno che egli è già orientato verso la notte, immerso nell’oscurità. Forse, come nella pittura d’icone, questi volti danno voce a una metafisica dell’essere, una metafisica «concreta», perché esprimono la manifestazione sensibile di un’essenza metafisica. Volto è epifania, è uno squarcio di luce nella notte: “si può dire che ‘volto’ è quasi sinonimo della parola manifestazione”, come scriveva Pavel Florenskij 3. E lo sguardo allegorizza la visibilità come «figurabilità» : allude a uno spazio originariamente altro, inimmaginabile, che l’arte ha reso percepibile ai sensi: uno spazio dove si muovono gli «spettri» delle cose, i loro «doppi» onirici chiamati a svelare, oltre la realtà del senso comune, la verità essenziale, soggettiva ma in qualche modo universale, delle cose stesse.
In un’epoca come la nostra, in cui si è perso il senso di una metafisica della luce, l’arte sacra di Giuliani ci dimostra che un senso complesso della bellezza può ancora animare l’arte contemporanea, perché è per sua natura “oltre”, ma un “oltre” a cui possiamo accedere, aldilà degli eccessi di razionalizzazione, aldilà della meccanica e della tecnica. La bellezza è Logica delle Forme, che può essere però colta solo abbandonando le strade del pensiero logico e lineare, per seguire il corso irregolare e simultaneo del pensiero simbolico – prerogativa dell’arte – percorrendo le vie dell’intuizione. Il simbolico non è infatti necessariamente linguistico mentre è, comunque, estetico: perché è con il corpo che si comunica e originariamente si sente, perché il legame simbolico con l’altro è radicato nella struttura di senso del “sentire”. Ed ecco, ancora, la centralità del dogma dell’Incarnazione, su cui si regge la struttura figurativa e “figurale” dell’arte di Giuliani, e tutta la storia dell’arte occidentale.

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1 W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1966, p. 70 (ed. or. Das Kunstwerk im Zeitalter seiner technischen Reproduzierbarkeit, in Schriften, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1955).

2 Cfr. D. Freedberg, Il potere delle immagini. Il mondo delle figure: reazione ed emozioni del pubblico, Einaudi, Torino 1993 (ed. or. The Power of Images. Studies in the History and Theory of Response, The University of Chicago, 1989).

3 P. Florenskij, Le porte regali – Saggio sull’icona, tr. it. Milano, Adelphi, 1977, p. 42.

Tito Spinelli

Esemplare percorso artistico quello di Cesare Giuliani, formulato quasi sempre con due tendenze per poter corrispondere alla figurazione nelle sue molteplici soluzioni, ammesse a presidiare l’umano. All’interno di questo tracciato si denotano altresì due costanti concettuali, il profano e il sacro. Se il profano attinge spesso a testimonianze di temi il cui disegno e colore sono combinati a delegare risposte estetiche, ciò che richiama il sacro devolve il proprio significato e , concettualmente, l’implicito richiamo dogmatico alla intemerata tradizione religiosa, concretata nella ariosità compositiva di grandi tele. Entro questo permanente dualismo si collocano alterni domini, come la ritrattistica, le nature morte, i paesaggi e i soggetti mitologici. Di qui una vasta gamma di esperienze in cui l’artista, bilanciando cromatismo e apparato disegnativo, ha ottenuto vari riconoscimenti in importanti rassegne. Per Giuliani tali interventi non sono semplicemente riproduzioni del reale, ma filtrate con indagini psicologiche, bene evidenti oltre i tratti ravvisati nei volti; per cui i personaggi effigiati, tramite il sostegno compositivo e l’addizione coloristica, si propongono non solo come ritratti, ma adducono anche a introspezioni analitiche per rilevare sentimenti, caratteri e il modo di porsi nel mondo col solo sembiante ricognitivo. In tempi più recenti l’attenzione di Giuliani nei confronti dei temi religiosi si è fatta più consistente, specie con quelli della iconografia cristiana. Come la Maddalena, ripresa fra sgomento ed estasi rivelatrice; il Cristo in croce, dalle dimensioni di una pala d’altare, in cui il Nazareno si situa quasi reincarnato nel duplice esito della morte al mondo e della Risurrezione, oltre la sofferenza umana. E ancora il grande dipinto del Martirio di San Lorenzo, che assume, nella pluralità degli attori convocati per il supplizio, una composizione assai articolata per singoli atteggiamenti da parte dei carnefici. Mentre lo scenario reperito si carica di allusioni storiche nell’arredo stesso a fronte della solarità del Santo, compreso della sua fine. Una tappa cardinale nella carriera del pittore per tematica affrontata e per la suggestione dello spazio nell’occhio dell’osservatore. E oggi uno degli apici dell’arte cristiana, L’Ultima Cena, prologo di quanto accadrà nella vita terrena di Cristo. La ripartizione dell’ambiente fisico sulla tela colloca gli apostoli secondo una ritualità ormai acclusa alla cultura occidentale, con gli stessi dietro un tavolo. Tale appoggio segue una linea che pare riannodare un alluso cerchio, i cui estremi sono personificati dai convitati posti alle due estremità. La sala tende a dilatarsi per convergere sulla profilatura delle colonne per un supposto punto di fuga. I discepoli ai lati di Gesù si manifestano in atteggiamenti diversificati col rivivere il medesimo turbamento di allora, nel silenzio che segue la predizione del Nazareno. Si tratta quasi di una sequenza teatrale, fissata per un istante irripetibile e la cui dinamica collettiva diventa più marcata per gli abiti dei convenuti. Vesti rivelatrici di un ordinario pauperismo ravvisabile nel divario cromatico che apparecchia i profili caratteriali dei protagonisti. In tal modo il sostegno pittorico riesce a creare per l’osservatore una serie di richiami che però alla fine si annulla in un unico discrimine tra l’immagine di Gesù e il contrastato ragguaglio psicologico dei seguaci. Giuliani raggiunge così quella tensione unitaria nella quale i vari “ attori ” si espongono in drammatica scansione per la rivelazione eucaristica. E allora ci chiediamo: Che significa rappresentare tuttora il sacro nella pittura se non per richiamarci ad una spiritualità meno distratta e disattesa? Se non per ricondurci alla raffigurazione della santità che ha educato i nostri padri? O per riconquistare la coscienza di un credo e di un’estetica per meglio affrontare il nostro tempo così cruciale e invasivo? Nel suo gravoso compito tutto questo persegue l’artista, e col ravvisare l’uomo pervaso di speranza.