La libertà religiosa è indubbiamente un connotato significativo di una cultura, e, conseguentemente, i richiami in ordine all’identità culturale assumono spesso una tonalità religiosa: la preservazione di una minoranza o di una cultura spesso dipende dalla salvaguardia di usanze e riti religiosi.
In generale, la religione costituisce un forte elemento di appartenenza, ingenera legami significativi tra i suoi membri, e, per ciò stesso, anche chiare linee di demarcazione tra appartenenti a non appartenenti a un certo culto.
Sebbene la religione venga sempre più intesa come una scelta soggettiva e autonoma, rimane prevalente l’idea che l’appartenenza religiosa sia quasi un fatto “di nascita”, che si tramanda di generazione in generazione, e che, pertanto, crea un decisivo sentimento identitario tra quanti vi afferiscono. Le religioni, inoltre, determinano visioni del mondo che pervadono tutta la vita del credente, attraverso regole di condotta, codici morali, cosmogonie, e quant’altro. Da questo punto di vista, esse sono spesso vissute come “esenti da critiche”: da un lato, perché si impongono come questioni di fede, cioè come qualcosa che non ha bisogno di essere spiegato o capito, ma semplicemente creduto (sicché rimangono permeabili a qualunque confutazione logica o scientifica); dall’altro, perché le tematiche religiose tendono ad occuparsi di ciò che vi è di più importante nella vita (dell’idea di “sacro”, di ciò che conferisce senso all’esistenza), e perciò possiedono una naturale inclinazione a superare ogni altro tipo di discorso potenzialmente contrastante, come ad esempio quello del rispetto delle regole giuridicamente intese.
Per tali motivi, il dato religioso dell’identità si manifesta come più pervicace e monolitico, e, per ciò stesso, meno negoziabile sul piano degli obblighi.
Lo Statuto Albertino, per diversi decenni, ha fatto riferimento a un impianto giuridico di carattere confessionale, in cui si prevedeva una religione ufficiale di Stato: l’art. 7, difatti, fa riferimento ai Patti Lateranensi del 1929, i quali, in base all’art. 1 del Trattato e all’art. 1 del Concordato, stabilivano che la religione cattolica era l’unica religione dello Stato italiano (la qual cosa è stata modificata nel 1984, con gli accordi di Palazzo Madama, per cui oggi la Costituzione repubblicana è del tutto aconfessionale).
Questo retroterra religioso dell’ordinamento giuridico italiano ha avuto ricadute, innanzitutto, su diverse normative infra-costituzionali, che prescrivevano trattamenti diversificati di tutela tra la religione cattolica e le altre. Oggi, in seguito al ‘repulisti’ che la Corte costituzionale ha effettuato in materia di disposizioni diversificate della tutela penale, la tutela penale risulta sostanzialmente uguale per i vari culti. Inoltre, il suddetto retroterra religioso sortiva degli effetti anche sul piano della diversa considerazione che si aveva della credenza religiosa rispetto a quella non-religiosa (o anti-religiosa): difatti, quantunque la libertà di non credere venisse riconosciuta, essa disponeva di una copertura giuridica minore rispetto alla libertà dei credenti. La Corte costituzionale è poi intervenuta anche su tale aspetto, negando che vi dovesse essere un così discriminatorio distinguo tra credenti da una parte e atei e agnostici dall’altra.
Attualmente l’ordinamento giuridico italiano è ispirato ad una forma di pluralismo in ambito religioso, tanto più che la nostra società si evolve maggiormente in termini multiculturali.
Il fattore primario della libertà religiosa, inteso come diritto culturale, risiede nella facoltà di scegliere liberamente un’appartenenza religiosa (ed, eventualmente, di mantenerla, o di smetterla, o anche, come abbiamo visto, di non sceglierne alcuna).
Da questo punto discendono le prime questioni importanti, e cioè: 1) come si accerta l’identità religiosa; e 2), come si tutela la libertà di afferire a un culto.
Relativamente alla prima questione, mancando qualsivoglia definizione giuridica di ‘religione’, è possibile accertare l’identità religiosa di un individuo su basi sostanziali, formali, o con un’auto-qualificazione.
L’accertamento cosiddetto ‘sostanziale’ consiste nel verificare se un soggetto segue i precetti caratteristici di una certa religione. Ammettendo il caso che una tale operazione venga eseguita correttamente dal giudice , magari col concorso di consulenti specializzati, tale opzione rischierebbe di ‘legalizzare’ i tratti di un culto definendoli nettamente e, perciò, ponendo dei seri limiti alla libertà religiosa in termini di reinterpretazione o di elaborazione dell’appartenenza religiosa.
L’accertamento formale, invece, dovrebbe riferirsi a parametri, appunto, “formali”, laddove questi sussistessero (eventuali previsioni statutarie, riti di iniziazione, procedimenti di espulsione, eccetera). Questo metodo è già meno rischioso del primo, anche se non sempre è facile attuarlo: invero, nell’ipotesi in cui una religione abbia un’organizzazione istituzionalizzata, burocratica e gerarchica, può accadere che il giudice possa soltanto affidarsi alle valutazioni ortodosse dei vertici del gruppo religioso, il che lo porterebbe a comminare la pena, in pratica, alla mancanza di dialettica interna a quel gruppo.
L’accertamento basato sulla auto-qualificazione del soggetto stesso, in realtà, appare come la più rispettosa del dettato costituzionale: infatti la Costituzione non tutela soltanto l’appartenenza religiosa, ma anche il “sentimento” religioso, ossia ciò che il credente ritiene congruo alla sua realizzazione spirituale.
Per quanto concerne il secondo problema (ossia la tutela della libertà dell’appartenenza religiosa), bisogna in primo luogo tener presente che la volontarietà della scelta religiosa spesso confligge con il fatto che una coscienza religiosa viene attribuita e formata nel soggetto fin da bambino, attraverso processi di acculturazione nell’ambito familiare e sociale: in pratica, la scelta e la formazione dell’appartenenza religiosa non derivano (il più delle volte) da una delibera del diretto interessato. Poiché l’itinerario che porta un individuo ad appartenere a un gruppo non è sempre lineare e trasparente, un segno più sicuro della volontarietà dell’appartenenza è che venga assicurato il diritto di scegliere liberamente di non far più parte del gruppo medesimo.
A tale proposito, la laicità pluralista adotta alcune misure specifiche quali: il divieto di indottrinamento religioso da parte dei pubblici poteri (il che impedisce l’insegnamento obbligatorio di una religione nelle scuole pubbliche); la non discriminazione dell’appartenenza religiosa da parte di soggetti pubblici e privati; la privacy relativa alla propria fede religiosa; la libertà di uscire liberamente da un gruppo religioso senza ricevere ritorsioni o pressioni.
Vediamo ora come i diritti culturali individuali possono entrare in conflitto con gli obblighi giuridici.
Spesso i diritti culturali reclamano forme di esenzione rispetto a un regime giuridico di diritto comune, in particolare quando si verifica una discrasia tra identità culturale e diritto. Obblighi e divieti giuridici, in effetti, possono interferire in vari modi con l’esercizio della libertà religiosa.
Innanzitutto, una certa prassi caratterizzata religiosamente potrebbe essere interdetta da una regola giuridica (si pensi al caso della poligamia). In tali ipotesi bisogna stabilire quando è legittimo porre un limite a condotte che sono costitutive di determinate identità religiose, o che sono ritenute tali da chi le professa. E’ una questione assai complicata, che dovrebbe essere valutata volta per volta in base agli interessi in campo. Quantunque sia impossibile mettere a punto una strategia standard che vada bene per tutte i casi, il principio milliano del danno ad altri può essere considerato un punto fermo di valutazione. Se una manifestazione di carattere religioso procura un nocumento limitato alla persona dell’interessato, il quale lo accetta esercitando la propria autonomia, la società non ha alcun titolo per intervenire in merito. Sotto quest’ottica risulterebbero quantomeno sospette le limitazioni alle manifestazioni dell’appartenenza religiosa operate al solo scopo di evitare un danno simbolico (come il danno al principio di laicità, che la legge francese ha adottato per giustificare il divieto di esibire i simboli religiosi nelle scuole pubbliche). Di contro, risulterebbero giustificate misure giuridiche protettive, improntate a un certo paternalismo, da parte dello Stato, allorché un atto caratterizzato religiosamente e lesivo di un soggetto sia stato compiuto da altri o addirittura imposto al soggetto da altri (per esempio, dai genitori nei confronti dei figli minorenni).
C’è da dire che il principio del danno presenta solo indicazioni piuttosto generiche, e lascia sul tavolo molte questioni aperte: per esempio, esso ipotizza che il danno possa essere stato liberamente accettato dal soggetto in piena autonomia, il che non sempre è dimostrabile facilmente. In più, lo stesso concetto di autonomia non è così marcato e ben definito: per esempio, ci si potrebbe domandare se l’esercizio dell’autonomia richieda la presenza di più opzioni tra cui scegliere, e, perciò, se sia conforme o contrario all’autonomia effettuare una scelta irreversibile. Ancora: possono sussistere valutazioni non chiare su cosa sia un fatto dannoso, e su quali nocumenti siano circoscritti realmente solo alla sfera dell’interessato.
Secondariamente, può succedere che il rispetto di un obbligo giuridico di portata generale (e quindi non specificamente rivolto ai membri di una certa religione) comporti che alcuni individui vengano meno a regole di natura religiosa, ponendo così il soggetto di fronte all’interrogativo se non sottostare alla norma religiosa conformandosi a quella giuridica, o se rischiare una sanzione giuridica seguendo le indicazioni della propria religione.
A titolo meramente semplificativo, si considerino le ipotesi seguenti:
– l’uso di droghe in pratiche religiose e la macellazione rituale degli animali;
– questioni relative a pratiche mediche o regimi alimentari in contrasto con le regole religiose (p. es. il rifiuto dei testimoni di Geova di sottoporsi a trasfusioni di sangue);
– questioni concernenti l’abbigliamento e l’esibizione di simboli religiosi, nelle ipotesi in cui sia richiesto (per esempio per motivi legati a ragioni lavorative) un abbigliamento non compatibile con quello religiosamente prescritto;
– i casi inerenti la disciplina delle festività religiose, regolate dalla legge tramite accordi con specifici culti.
Per queste eventualità si pone il problema di definire quando una condotta a tonalità religiosa possa considerarsi motivo sufficiente per reclamare un’esenzione da obblighi giuridici generalmente applicati. Sostanzialmente, esimere un soggetto da un obbligo giuridico per il solo fatto che egli afferisce a una certa religione, darebbe luogo a dei trattamenti diversificati difficilmente giustificabili; in più, nel caso in cui si verificasse proprio questo come atteggiamento generale, si creerebbe la necessità di estendere l’esenzione anche a credenze di ogni tipo, non solo religiose.
La rilevanza penale della libertà religiosa
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