Tutti, in qualche passaggio della nostra vita, abbiamo perso qualcosa di importante per noi: la magia dell’infanzia, l’entusiasmo della giovinezza un’amicizia, un amore….nei casi più dolorosi un nostro caro. E ci siamo, a seguito di questa perdita, sentiti non solo addolorati ma anche di colpo diversi, svuotati, “stranieri” a noi stessi. Ci siamo certamente sentiti sopraffatti da malinconia e angoscia ma anche certamente, in un secondo tempo, stimolati a reagire, a ricostruirci: perché le perdite non comportano sempre e solo conseguenze negative, anzi: ci costringono a verificarci, a valutare le nostre forze, a riscrivere la nostra storia, facendoci sprigionare insospettate energie interiori. E’ con una riflessione sulla “perdita” che Aldo Becce ha iniziato la sua piacevolissima e brillante relazione “Identità ed alterità” lo scorso 1° febbraio nell’ambito di “Confluenze, dalla multicultura all’intercultura”, organizzata del Centro culturale Veritas in collaborazione con la sezione UCIIM di Trieste. E’ infatti la perdita ciò che, almeno in una prima fase, connota la situazione dello straniero: perdita del proprio titolo di studio non sempre riconosciuto nel paese di arrivo, del proprio nome, che facilmente viene storpiato (i nomi degli stranieri sembrano spesso impronunciabili), del proprio paese di provenienza che può venire confuso con altri limitrofi… della possibilità di esprimersi, persino di fare e ricambiare le battute con gli amici cui al massimo può rispondere con un imbarazzato sorrisetto; nei casi peggiori sperimenta anche la derisione perché la incapacità di esprimersi spesso viene interpretata come scarsa prontezza. Lo straniero inoltre si percepisce sempre fuori posto, lento, in ritardo, impacciato come è nel gestirsi anche dal punto di vista logistico. Come un soldato pubblicamente degradato, lo straniero si sente privato di tutto. Percepito in patria come un traditore, come uno che ha abbandonato il suo paese, in quello di arrivo è un senza terra, senza lingua, senza nome, senza rappresentazione nella testa dell’altro o, al massimo, con una rappresentazione estremamente riduttiva del tipo “tu sei straniero”. In questa traumatica ed angosciosa situazione di una cosa più di tutte ha bisogno: di accoglienza. E non solo sotto il profilo affettivo, ma anche e soprattutto identitario perché l’identità si costruisce dall’esterno: l’ “io sono”, infatti, è sempre successivo alla rappresentazione altrui, dipende strettamente dal “tu sei”. Ognuno di noi, e lo straniero in modo particolare, necessita di un riconoscimento. L’esperienza della perdita però non finisce certamente qua. Ad essa, ha proseguito Aldo Becce facendo anche riferimento alla sua personale esperienza di immigrato argentino anche se ormai meticciato, ad essa segue un’altra, questa volta piacevole e godibile: quella della libertà. Lo straniero infatti, non avendo né ricordi né passato radicati nel paese di arrivo, è libero di scoprirlo e viverlo con innocenza, forse anche con una certa ingenuità ma certamente anche con maggiore oggettività degli stessi residenti, libero come è dal peso di dinamiche storiche pregresse o di incrostazioni campanilistiche. In questa fase è lui che arricchisce e dona qualcosa ai residenti. Lo scambio culturale ed esperienziale tra nuovi arrivati e residenti può essere fecondissimo, come largamente dimostrato dalla carica vitale, intelligenza ed originalità presenti nel meticciato; ugualmente però, di fatto, lo straniero è solitamente guardato con sospetto e diffidenza. Ed ovviamente ciò provoca sofferenza. Non si lasci però, lo straniero, abbattere da eventuali ostilità, prese in giro o insulti: sta a lui reagire positivamente, elaborare il trauma, ribellarsi alla ghettizzazione e all’identificazione con una vittima. Tutti infine, ha esortato Aldo Becce, residenti e stranieri, sentiamoci chiamati ad assumere una posizione etica: consapevoli che i movimenti migratori sono l’effetto di dinamiche storiche del passato, di squilibri ambientali, di traffici sbilanciati, di accumulazione iniqua di ricchezze, mettiamoci in una coraggiosa posizione di dialogo, ma non solo con lo straniero, con chiunque, a partire dal vicini di casa o dal familiare: gettiamoci nella mischia. Genitori ed insegnanti, in particolare, sappiano supportare bambini e giovani che hanno subito una perdita stando loro vicino. Evitino però di “con-durli”, sappiano invece “accompagnarli”, magari stando un passo indietro. Nel ragazzo si risveglierà quel prezioso istinto “nomade” che sempre accompagna quello “sedentario”, istinto capace di sprigionare una forza enorme, germe di libertà, capace di andare alla riconquista della propria vita. (Marina Del Fabbro)
Trieste: L’UCIIM discute di “Identità ed alterità”
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