Arquata Del Tronto (Marche) 02 aprile 2017

ZONA ROSSA – VIAGGIO NELL’EPICENTRO DEL SISMA

Passano i giorni, ma le immagini restano e non solo in qualche angolo remoto della memoria del personal computer e della macchina fotografica, bene impresse nei miei ricordi e credo che lo rimarranno fino alla fine dei miei giorni. Pescara del Tronto e Capodacqua, due frazioni di Arquata del Tronto, ossia quelle terre profondamente martoriate dal grande terremoto del 2016 e che ancora oggi ogni tanto fa sentire la sua lugubre voce. A inizio ottobre, ossia qualche settimana prima delle scosse devastanti della fine di quel mese, mi era capitato, rispettando una promessa che mi ero fatto, di andare a visitare Castelluccio di Norcia, per me uno dei luoghi del cuore al quale sono affezionato e vedere la devastazione di agosto, anche se poi il mostro di ottobre ha inghiottito quello che era rimasto in piedi, rendendolo di fatto inaccessibile anche a chi ci vive e chi ci lavora. Era inizio autunno e il cuore si stringeva perché l’inverno si stava avvicinando…
Sei mesi dopo, con la primavera nascente, a corollario di un corso di formazione per giornalisti, su informazione ed emergenze, al Monastero di Valledacqua ad Acquasanta Terme, la visita guidata, caschetto di protezione obbligatorio in testa e accompagnati dai Vigili del Fuoco, nostri angeli custodi, nelle zone rosse di Pescara del Tronto e Capodacqua.
Pescara del Tronto, ai più rimasta impressa per quel gruppo di auto rimaste sospese per mesi, in bilico, con attorno un paese devastato, raso al suolo, in pratica cancellato dalla cartina geografica e Capodacqua, frazione limitrofa dal medesimo, triste, doloroso destino.
Due frazioni fantasma, sembra di essere ad Aleppo piuttosto che a Mosul, dove tutto o quasi è stato raso al suolo come da un bombardamento. Pescara del Tronto, la “vecchia” Pescara del Tronto, quella ante terremoto, frazione di Arquata del Tronto graziosa contrada appenninica, che sta tra i viadotti della variante per Norcia e la nuova Salaria. Due file di case intorno alla vecchia Salaria, la strada che collega Roma all’Adriatico, con la sua caratteristica forma a mezzaluna, con alle spalle la cava e poi più sotto un dedalo di sentieri e scale tra le case aggrappate sul costone che degrada a valle e oggi ridotto a macerie, che hanno seppellito cinquanta vite umane. Gli unici esseri viventi, Vigili del Fuoco e forze dell’ordine a parte, pronti ad accoglierci sono stati due cani, due pastori maremmani, una volta dal bianco mantello e un simpatico gatto nero, probabilmente di proprietà di un pastore che in mezzo a quelle rovine, custodisce le sue pecore, unica fonte di sostentamento. Alla ritrosia del pastore, forse impaurito dalla comitiva, giunta a spezzare lo spettrale silenzio, faceva da contraltare la voglia di coccole e carezze di queste piccole creature, com’erano abituati a riceverne prima da parte dei loro amici umani, che oggi sono stati spostati da qualche parte o peggio ancora forse non ci sono più. L’inferno di un paesino che si popola soltanto d’estate, metà dei romani di ritorno, dove i tetti delle case non ci sono più, implosi, spazzati via, crollati, diventando la tomba di turisti, ragazzi, cancellando intere famiglie.
E in mezzo alla distesa di macerie i colori della primavera, incuranti del contesto brillano, rendendo ancora più struggente quella visione di distruzione e morte.
E sono i particolari che si colgono intorno a tante macerie, che ti fanno interrogare, su cosa facessero, chi fossero, che vita conducessero chi abitava in quelle case e quale sia stato il loro destino, domanda ahimè senza una risposta rassicurante. Case aperte come una scatola di cartone che lascia alla pubblica visione un letto di una camera e un bagno, quasi a violentare la sacralità che quei luoghi hanno nel nostro vivere quotidiano… Valigie che emergono dalle macerie pronte a essere disfatte o piene per essere a corredo di qualche viaggio…
Accessori da cucina, anch’essa luogo simbolo dell’incedere quotidiano, dove spesso le famiglie si ritrovano al termine della giornata lavorativa, rimasti ordinatamente al loro posto all’interno di un mobile travolto dalle macerie, racchiuse da due brandelli di muro, rimasti miracolosamente ancora in piedi e simili a due fuscelli d’erba…
Un vasino da bambino, vicino a una tastiera di un PC, a un cannocchiale per scrutare un futuro che forse per qualcuno non ci sarà mai più, che vivranno solamente nei ricordi di coloro rimasti sulla terra, bagnate dalle copiose lacrime di chi piange la loro scomparsa straziante.
Vedi il ferro del cemento armato delle case, aggrovigliato come spago dalla forza bruta della natura e capisci quanto il mostro sotto terra, in quella tremenda notte di fine agosto, abbia cercato di inghiottire tutto.
A Capodacqua dall’uscio di una casa rimasto aperto, fa capolino nell’ingresso un’icona votiva di una Madonna con bambino, quasi a protezione di quell’immobile.

Queste parole, queste riflessioni a voce alta, vengono dal mio cuore, da quel luogo, dove in ognuno di noi risiedono le nostre emozioni e da dove deve partire la volontà di ricostruire, che possa contrastare lo smarrimento e il senso d’impotenza, di sconfitta che si genera in noi di fronte a queste immani tragedie e allo sterminato tappeto di morte e di macerie che lasciano.