La Rete Epatologica Siciliana è considerata unanimemente il miglior modello nazionale per la lotta al virus dell’epatite C: è uno dei dati più significativi tra quelli emersi in occasione di “Across The UNIverse – Biotech Camp”, iniziativa promossa nell’ambito della IV edizione dell’European Biotech Week con l’obiettivo di analizzare i rapporti virtuosi tra ricerca clinica – universitaria e mondo dell’industria. “La Sicilia è un esempio per tutta Italia – ha sottolineato Giovanni Raimondo, direttore UOC Epatologia clinica e biomolecolare del Policlinico G. Martino – l’idea è già quella di estendere questa rete eccellente ad altre patologie di interesse epatologico come epatite B (che non ha ancora una cura ma si può tenere a bada il virus), steatoepatite e a quelle autoimmunitarie del fegato, in particolare epatite autoimmune e colangite biliare primitiva”. Quest’ultima, denonimata CBP, è considerata cronica e rara; una volta era chiamata “cirrosi”, ma molti anni fa gli epatologi hanno modificato il termine perché, grazie alla diagnosi precoce, non si arriva più a quello stadio, oltre a superare lo stigma dell’alcol, non legato alla colangite. In Italia sono affette 13mila persone con un’incidenza di 5,3 casi su 100mila persone ogni anno, perlopiù donne (90%); è ancora poco conosciuta e nel 30/40% dei casi può portare al trapianto di fegato. La sintomatologia è poco specifica, quindi oltre il 40% attende almeno un anno prima di rivolgersi al medico e tra la prima visita e la diagnosi trascorrono altri due anni. “Abbiamo prodotto negli anni numerosi lavori di ricerca traslazionale i cui risultati sono stati pubblicati sulle più importanti riviste di medicina – ha proseguito Raimondo – grazie al sostegno di fondi pubblici e aziende private per la validazione di nuovi farmaci”. Partner dell’evento all’UniMe Intercept rappresentato dall’A.D. Barbara Marini che ha ricordato le difficoltà nell’accesso alla cure e le differenze
La Rete Epatologica Siciliana nella lotta all’epatite C
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