Agrigento (Sicilia) 27 gennaio 2015

HANNO DISTRUTTO IL TEATRO GRECO DI ERACLEA MINOA (AG)

QUESTA E’ L’OPINIONE DI GIAN ANTONIO STELLA (Corriere della sera)
C’è da avvampare di vergogna, a vedere com’è ridotto lo stupendo teatro greco di Eraclea Minoa. La «pensata» di chi mezzo secolo fa suppose di difenderlo facendogli una mantella di plexiglass si è rivelata un disastro. E lo scheletro dell’osceno «parapioggia» successivo, semidistrutto e sgangherato, resta lì, spettrale. A inorridire i turisti. Scossi dallo spreco di tanta bellezza.
Hanno qualcosa del fascino di capo Sounion, queste rovine alte sul mare a metà strada tra Agrigento e Sciacca. Se in punta all’Attica svettano solenni sull’Egeo le colonne dell’antico tempio a Poseidone, qui domina la magia del teatro. Un teatro che, a dispetto dei precetti di Vitruvio, fu costruito tra il quarto e il terzo secolo avanti Cristo come ad Atene e Siracusa, cioè con la cavea aperta a Sud. Spalancata sul fantastico mare blu nel quale, lontano lontano, in certi giorni limpidissimi, si vede perfino il profilo di Pantelleria. Un sogno.
La costruirono proprio in un gran posto, l’antica Eraclea Minoa, fondata probabilmente nel VI secolo a.C. da coloni della vicina Selinunte e difesa un tempo da una imponente cinta muraria lunga almeno sei chilometri. Ritta e solenne sul promontorio che oggi si chiama Capo Bianco e che si staglia con le sue pareti bianche verticali, guardando il mare, a sinistra della foce del fiume Platani. Sopra una spiaggia lunga lunga protetta alle spalle da una pineta così bella da nascondere in parte perfino gli insediamenti edilizi.
Il teatro, però, è fragilissimo almeno quanto è bello. Individuato nel Settecento ma portato alla luce solo nel 1953, mostrò subito d’aver bisogno di cure. Non è di marmo, infatti. Né di pietra dura. I gradoni dei nove settori arrivati fino a noi sono infatti in conci di «marna arenacea». E la marna, spiega la Treccani, è una roccia argillosa che può essere tenera (come qui) e viene usata per la fabbricazione del cemento e della calce idraulica: «Un problema grosso», spiega Caterina Greco, sovrintendente di Agrigento dopo essere stata a Selinunte dove riuscì a vincere la battaglia per togliere le impalcature che da 11 anni ingabbiavano il tempio C, «sotto il vento si sfarina e quando piove si “impacca” come se fosse gesso».
Appena se ne accorsero, a metà degli Anni 50, si chiesero: cosa fare? La prima soluzione, proposta dall’Istituto centrale del restauro, fu una spennellata di resina speciale per rendere i gradoni impermeabili in eterno. Macché: un fallimento. La seconda soluzione fu avanzata dall’architetto viterbese Franco Minissi. Il quale scelse di coprire «integralmente la cavea con una sorta di vetrina incolore e trasparente in loco».
I risultati sono quelli che vedete. Un paio di decenni e i gradini «perfettamente incolori e trasparenti» erano già giallastri. Ma soprattutto, nella intercapedine tra quei gradini di plexiglass (sorretti da 700 pali conficcati nella carne stessa del teatro con trapani dalla punta spropositata!) e i sottostanti gradini di marna, erano cresciute piante abnormi esasperate d’estate dal caldo torrido e nei mesi piovosi da una condensa di umidità pazzesca. Conclusione: i gradini si erano decomposti.
Fu così che, pensa e ripensa, nel ‘95 rimossero una parte di quella copertura insana, disboscarono la giungla cresciuta sotto, ripulirono quanto restava della gradinata. Finché si decisero a togliere tutto. E ora? Pensa e ripensa nuovamente, nel ‘99 scelsero di coprire tutto il teatro con una specie di parapioggia che seguiva le forme della cavea.
Un ammasso orrendo di tubi Innocenti e pannelli.